Tema della sentenza n. 28989 del 2019 – Pres. Cons. Amendola Rel. Cons. Dell’Utri – pubblicata l’11 novembre, insieme alle altre in materia di responsabilità medico-sanitaria, è il danno da morte; la pronuncia trae, infatti, origine da una richiesta risarcitoria avanzata, nei confronti di una struttura ospedaliera, dagli eredi di un soggetto deceduto a causa di un’infezione nosocomiale.
Con la sentenza Dell’Utri, la Corte di cassazione, chiamata a stabilire l’esistenza o meno di un danno da morte, aderisce – e così contribuisce a consolidare – l’orientamento risalente e maggioritario secondo cui non esiste (né potrebbe) un danno da “perdita della vita” nel caso di morte immediata o di sopravvivenza quodam tempore per un lasso di tempo non apprezzabile.
Anche di recente (si veda la sentenza n. 1361 del 2014, pres. Cons. Russo rel. Cons. Scarano, tra le poche decisioni favorevoli alla risarcibilità iure hereditatis del danno da morte, in aperto contrasto con i precedenti), l’orientamento fatto proprio dalla decisione in commento è stato oggetto di critica sul presupposto che fosse “ingiusto”, in contrasto con la coscienza sociale, negare il risarcimento del danno in caso di morte conseguente a lesione, anzi finanche pericoloso, potendo sembrare più conveniente uccidere che non ferire. La tesi favorevole alla risarcibilità sottolinea il paradosso per cui si finirebbe per punire la lesione del bene “salute” ma non anche la compromissione definitiva del bene “vita”, che di quel bene costituisce la «massima lesione».
Tutti questi argomenti sono, in realtà, privi di pregio. La sentenza Dell’Utri richiama, rinverdendone i principi, la sentenza n. 15350 del 2015 (pres. Cons. Rovelli rel. Cons. Salmè) delle Sezioni Unite con cui è stato riconosciuto che il bene “vita” è bene diverso dal bene “salute”, costituendo la “vita” «bene autonomo, fruibili solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente»; e che, alla luce dei principi che governano il sistema della responsabilità civile, non è predicabile la risarcibilità di un danno in assenza di una perdita e di un soggetto legittimato a far valere il relativo credito (l’argomento cosiddetto “epicureo”, pag. 11 «E poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva […] dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo»).
Ribadito che non esiste un danno da “perdita della vita”, la sentenza Dell’Utri passa, poi, ad indicare gli unici pregiudizi risarcibili nel caso in cui alla lesione sopravvenga il decesso. Assume rilievo l’arco temporale intercorrente tra i due eventi.
Solo nel caso di morte sopravvenuta a distanza di diverso tempo dalla lesione, gli effetti di essa potranno prodursi nella sfera giuridica del danneggiato (e, successivamente, essere trasferiti nella sfera giuridica dei suoi eredi), ossia si manifesterà il danno-conseguenza. Il danno biologico terminale – come definito – differisce dal danno biologico tout court unicamente poiché presuppone l’invalidità temporanea (non essendoci guarigione, non assumono rilievo i postumi quanto le forzose rinunce cui è costretto il soggetto durante la malattia).
Al danno biologico termine – si legge ancora – potrebbe, a seconda dei casi, aggiungersi un’altra voce, pur nell’unitarietà (liquidatoria) del danno non patrimoniale, ossia il cd. danno morale terminale, volto a risarcire la sofferenza, il forte timore provato dal soggetto consapevole dell’avvicinarsi dell’evento infausto.
La differenza tra le due voci di danno cosidetto terminale sta in ciò: mentre il danno biologico terminale presuppone necessariamente, per il suo sorgere, un apprezzabile lasso di tempo – diverso a seconda dei casi – tra la lesione e la morte, la componente temporale ha minore rilevanza per il danno morale terminale, non essendone elemento costitutivo. Anche pochi minuti, infatti, possono essere sufficienti per acquisire coscienza dell’avvicinarsi della propria fine.
Coerentemente con le ragioni per cui è nato il “Gruppo Sanità”, il Collegio non ha perso occasione per ribadire alcuni principi – correlati all’argomento centrale – in materia di risarcimento del danno, sgomberando il campo da equivoci, spesso terminologici.
Così, nella sentenza Dell’Utri si legge che, l’onere di provare in giudizio il nesso di causalità materiale tra il fatto illecito del medico e il danno, anche nell’ambito dell’azione contrattuale avverso la struttura, grava sul paziente, essendo il nesso di causalità materiale elemento costitutivo dell’azione risarcitoria (in questo senso già sentenza n. 26700 del 2018; tema affrontato nelle due sentenze pubblicate lo stesso 11 novembre, n. 28991 e 28992 Rel. Cons. Scoditti). E si legge – ancora – che la congiunta attribuzione agli eredi di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale costituisce un’illegittima duplicazione risarcitoria (principio già affermato da sez. U, n. 26972 del 2008, cd. sentenze di San Martino), e lo stesso è detto per il caso di congiunta attribuzione del danno biologico e del danno dinamico-relazionale – già ricompreso nel primo.
In conclusione, nel caso di morte di un congiunto, gli eredi avranno diritto – iure proprio – al danno da perdita del rapporto parentale e, eventualmente, al danno biologico subito (es. in caso di depressione clinicamente accertata causata dalla perdita del congiunto); mentre, potranno far valere iure hereditatis il danno biologico terminale patito dal congiunto solo ove tra la lesione e l’evento morte sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo. Quanto al danno morale terminale, invece, a prescindere dal tempo, essi potranno farlo valere – sempre iure hereditatis – ove dimostrino che la vittima era lucia e cosciente, consapevole della propria fine incombente.