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Danno da emotrasfusione – ultimo intervento della Corte di Cassazione

Con la recentissima ordinanza numero 29766/2020 del 29.12.2020, della Corte di Cassazione civile, sezione L, la Suprema Corte interviene per definire una questione rilevante che attiene alla responsabilità extracontrattuale (del Ministero della Salute), che può originare nell’ipotesi in cui un paziente sia stato sottoposto a emotrasfusione e conseguentemente ne abbia potuto subire un danno. La questione della responsabilità contrattuale o extracontrattuale pone l’attenzione su diversi aspetti, in particolare inerenti la prescrizione dell’azione, la decorrenza termine di prescrizione, l’onere probatorio in relazione al nesso causale e alla responsabilità colposa o dolosa del convenuto. In particolare, per quello che riguarda la prova della responsabilità, per tali tipologie di danni, questa può risultare particolarmente ostica, sia in merito all’individuazione dei soggetti ritenuti responsabili nonché per la determinazione precisa della causa e del momento in cui si è verificato il contagio. Ciò è determinato dal fatto che spesso si tratta di patologie che possono avere tempi lunghi di incubazione o perché il danneggiato scopre comunque molto in ritardo la patologia da cui è affetto o fa fatica a ricondurre quale potrebbe essere l’origine. Si tratta infatti di danni che possono manifestarsi o essere scoperti a distanza anche di anni dal contagio. Ciò comporta, inevitabilmente, conseguenze di non poco conto in ordine alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno. Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte una donna lamentava di aver contratto il virus dell’epatite C, alla fine degli anni Settanta in un ospedale del Lazio e pertanto richiedeva un indennizzo ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge n. 210/1992 per danno da emotrasfusione.

Nell’ambito della difficile prova del nesso causale tra la trasfusione e il contagio in ipotesi del genere, giurisprudenza consolidata ha stabilito che questa possa  basarsi su presunzioni, con la necessità però di dimostrare che la condotta in questione abbia provocato il contagio e la struttura sanitaria non abbia predisposto un percorso per la tracciabilità del sangue o non abbia prodotto in giudizio la documentazione obbligatoria in tal senso.

Ciò posto, la Suprema Corte intende chiarire con il provvedimento summenzionato che resta indispensabile fornire la prova dell’avvenuta trasfusione, anche questa possibile per presunzioni,  e che nel caso sottoposto all’attenzione della Sezione L mancava, poiché il CTU rilevava che dalla cartella clinica della paziente, relativa al ricovero, non risultavano effettuate né prove di interreazione, né emotrasfusioni. Mancavano, quindi, gli elementi a sostegno dell’avvenuta emotrasfusione e quindi del concreto contatto della ricorrente con quella che poteva essere l’origine del contagio dal virus dell’epatite (“manca il necessario presupposto presuntivo di una somministrazione alla paziente”).

È infatti orientamento consolidato che l’attore deve fornire la prova dell’avvenuta trasfusione, che abbia patito un danno, il nesso causale tra la causa e il pregiudizio patito, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica.

Pertanto con la summenzionata ordinanza la Corte intende ribadire la necessità della “prova del nesso di causalità materiale tra infezione ed emotrasfusione”. Tale traccia sarebbe stata astrattamente idonea a provare il contagio, con conseguente obbligo in capo alla Amministrazione di provare che non c’era inadempimento o in mancanza che pur essendoci questo non aveva provocato il danno lamentato.

Richiamando quanto espressamente sancito nell’ordinanza “Giova ricordare, in proposito che questa Corte (Cass., n. 5961 del 2016) ha sì affermato che in tema di responsabilità extracontrattuale per danno causato da attività pericolosa da emotrasfusione, la prova, che grava sull’attore danneggiato, del nesso causale intercorrente tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV, può essere fornita – ove risulti provata l’idoneità di tale condotta a provocare il contagio – anche con il ricorso alle presunzioni, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente, e ciò in applicazione del criterio della vicinanza della prova. L’applicazione dei suddetti principi, tuttavia, ha come necessario presupposto la prova, sia pure presuntiva, dell’effettuazione della trasfusione, circostanza che nella specie non risultava dalla cartella clinica, e rispetto alla quale il contenuto della prova per testi è stato ritenuto dalla Corte d’Appello non decisivo in relazione alle risultanze della documentazione sanitaria. La giurisprudenza di questa Corte ha affermato che, ai fini del sorgere del diritto all’indennizzo previsto in favore di coloro che presentino danni irreversibili derivanti da epatiti posttrasfusionali dall’art. 1, comma terzo, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, la prova a carico dell’interessato ha ad oggetto l’effettuazione della terapia trasfusionale, il verificarsi dei danni anzidetti e il nesso causale tra i primi e la seconda, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica (cfr., Cass., n. 27471 del 2017).

A cura dell’Avv. Giuseppina Russo