Le riforme che hanno interessato il diritto di famiglia – a partire dalla prima degli anni Settanta – ne hanno gradualmente adeguato la disciplina al dettato costituzionale.
Il Titolo II della Costituzione, dedicato ai “Rapporti etico-sociali”, si apre riconoscendo i diritti della famiglia quale società naturale, prima tra le formazioni sociali (art. 2 Cost.) nell’ambito delle quali prende forma e si svolge la personalità di ciascuno. È, in primo luogo, all’interno della famiglia che devono affermarsi quei principi di uguaglianza e solidarietà su cui si fonda l’ordinamento giuridico.
Tralasciando i mutamenti occorsi nell’ambito dei rapporti interpersonali tra coniugi – dalla potestà maritale all’uguaglianza morale e giuridica sancita nell’art. 29 Cost. – i mutamenti più significativi avvenuti negli ultimi anni si sono registrati nella regolamentazione del rapporto genitori-figli.
Le scienze antropologiche e medico-psichiatriche hanno da tempo dimostrato l’importanza del rapporto genitori-figli ai fini della corretta formazione fisiopsichica del minore. Crescere in un ambiente familiare sereno, circondati dall’affetto e dalle cure dei genitori, è un aspetto determinate per la crescita dei figli e per lo sviluppo della loro persona.
Una tale consapevolezza si è tradotta, sul piano legislativo, nella legge n. 219 del 10 dicembre 2012 (contenente “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”) e relativo decreto legislativo di attuazione (D.lgs n.154 del 28 dicembre 2013, contenente “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”).
Oltre a superare la distinzione tra filiazione naturale e legittima (con disposizioni innovative anche per quanto riguarda il riconoscimento del figlio incestuoso), il legislatore introduce nel codice civile gli artt. 315 e 315bis cod. civ., delineando quello che è stato definito un vero e proprio “statuto dei diritti del figlio”. In particolare, l’art. 315bis cod. civ. enuclea in positivo – sotto forma di diritti – quanto previsto nell’art. 30 Cost., secondo cui i genitori hanno il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli; ma, in aggiunta, sancisce il diritto del figlio ad essere assistito moralmente dai genitori, il diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
La disciplina positiva presta nuova attenzione al rapporto genitori-figli, curandosi non soltanto dell’aspetto economico – legato al mantenimento – quanto, piuttosto, dell’aspetto morale ed affettivo della relazione. Un aspetto già oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza, alle prese con le domande di riconoscimento dello status filiationis, secondo cui il riconoscimento di quello status costituisce «un diritto che […] è elemento costitutivo dell’identità personale, protetta, oltre che dagli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, dall’art. 2 della Costituzione.» (Corte Cost. n. 494/2002) e dal quale discende la titolarità dei diritti ora positivizzati nell’art. 315bis cod. civ.
In particolare, il decalogo dei diritti del figlio ha spinto taluno a teorizzare l’esistenza di un vero e proprio diritto all’amore dei genitori in capo ai figli. È in questo senso che andrebbe intesa la disciplina dello status filiationis e, in particolare, il diritto all’assistenza morale di cui all’art. 315bis cod. civ., la valorizzazione del quale si lega ad una valorizzazione dei diritti della personalità di ciascun membro familiare, e si spiega alla luce del ruolo fondamentale che la famiglia, intesa come luogo di premura e affetto, assume nello sviluppo dei figli.
Il tema è di grande rilevanza e si scontra con la difficoltà di tradurre in diritto positivo un elemento probabilmente solo all’apparenza metagiuridico, ossia l’affetto. Se è vero che i sentimenti nascono nel foro interiore di ciascuno, è pur vero che essi sono destinati a manifestarsi verso l’esterno, traducendosi in comportamenti. Mentre i primi sono indifferenti, o meglio, intangibili per il diritto, i secondo, invece, possono assumere giuridica rilevanza, poiché si traducono, appunto, in qualcosa di tangibile.
Un simile modo di ragionare non è estraneo o comunque non è nuovo per l’ordinamento, basti pensare alla tutela (anche penale) offerta in caso di lesione del sentimento dell’onore.
Il discorso si lega al tema dei cd. danni endofamiliari e, più in generale, alla necessità, pur nella valorizzazione del nucleo familiare, di consentire spazi d’intervento a tutela dei diritti della personalità di ciascun membro della famiglia.
Naturalmente, l’affermazione di un diritto, ove non seguita dall’individuazione degli strumenti di tutela in caso di sua lesione, resta priva di qualsiasi rilievo.
Nel caso del diritto all’amore, il problema non è di facile soluzione, data la natura incoercibile e infungibile degli obblighi in cui esso si sostanzia. Ma, anche, data la difficoltà di rintracciarne la natura giuridica.
Così, secondo taluni, il diritto all’amore avrebbe natura relativa, alla stregua di un diritto di credito, dal quale si differenzia per la natura non patrimoniale, imprescrittibile e indisponibile ch’esso mutua dai diritti della personalità; mentre, secondo altri, esso avrebbe natura assoluta, tutelabile nei confronti di qualsiasi soggetto.
Quanto ai rimedi, la natura incoercibile e infungibile degli obblighi ad esso connessi conduce alcuni a ritenere che qualsiasi condanna sarebbe priva di utilità, mentre secondo altri avrebbe comunque una funzione di moral suasion.
Nessun dubbio, invece, sul piano risarcitorio, giacchè qualsiasi pregiudizio rilevante incidente su un diritto della personalità dell’individuo può essere tutelato ai sensi degli artt. 2043 e 2059 cod. civ.
Nel solco del dibattito relativo al diritto all’amore, non può non tenersi conto di una recente giurisprudenza di legittimità chiamata a pronunciarsi sull’obbligo di visita del genitore non affidatario (sez. 1 n. 6471 del 2020).
La Corte ha escluso l’esistenza di strumenti in grado di incidere coercitivamente nei confronti del genitori che, pur non venendo meno al dovere di assistenza economica, venga meno al dovere di assistenza morale, sottraendosi alle visite e facendo mancare al figlio la sua presenza.
La decisione assume rilevanza in un duplice senso.
In primo luogo, essa pone un freno al ricorso a misure coercitive (sul modello delle astreinte) nell’ambito dei rapporti affettivi, di frequente adoperate dalla giurisprudenza di merito. La natura incoercibile dell’obbligo di visita – secondo la Corte – si giustifica in quanto espressione della capacità di autodeterminazione dell’individuo, il cui esercizio è rimesso ad una scelta libera.
Apparentemente, ciò sembra sconfessare quanto fin qui detto circa la concretezza del diritto all’amore. In realtà così non è. La coercibilità del dovere è esclusa principalmente alla luce dell’interesse/diritto del minore: un esercizio coartato del diritto/dovere di visita potrebbe incidere negativamente sul rapporto genitore-figlio, minando la qualità del tempo trascorso insieme, ossia produrre un effetto contrario a quello sperato, ed incidere negativamente sullo sviluppo e sulla crescita del figlio.
Analoghi principi si ricavano dalla disciplina dell’adozione, nella quale è ancor più marcata la rilevanza giuridica assunta dai sentimenti (si pensi a quanto previsto dall’art. 6, comma 2, l. 184/1983 secondo cui “I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di
educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare”).
Ad ogni modo, anche se il dibattito relativo al diritto all’amore non è ancora giunto ad una soluzione definitiva, alla luce del decalogo contenuto nell’art. 315bis cod. civ., non pare negabile la rilevanza giuridica ch’esso assume, a prescindere dalla denominazione, nell’ambito dei rapporti interfamiliari.