Con la sentenza n. 31273/2020, la Quinta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha affermato che il reato di atti persecutori si può configurare anche nell’ipotesi di mobbing, quando i molteplici atteggiamenti consistenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente lavorativo, siano idonei a escludere o limitare la libera autodeterminazione della vittima, determinando uno degli eventi contemplati dall’art. 612 bis del Codice penale.
Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, l’amministratore delegato di una società era stato accusato del reato c.d. di stalking per aver perpetrato una serie condotte persecutorie ai danni di una dipendente.
Preliminarmente va chiarito che il concetto di mobbing lavorativo è stato elaborato dalla giurisprudenza per definire quei comportamenti persecutori posti in essere dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, con l’intento persecutorio. In effetti, perché si possa ritenere configurata la fattispecie in esame, occorre dimostrare non solo l’esistenza di condotte illegittime da parte del datore ma anche l’intento prevaricatore, mortificatore e finalizzato all’isolamento del lavoratore stesso.
Data questa premessa, secondo la Suprema Corte, se si esamina la fattispecie concreta alla luce degli effetti delle condotte datoriali sull’integrità psicofisica del lavoratore, non può che confermarsi la riconducibilità degli atti vessatori alla norma incriminatrice di cui all’art. 612 bis del Codice penale, ove ricorra uno degli eventi indicati da questa norma.
Il delitto di atti persecutori, disciplinato dall’art. 612 bis, si configura quando chiunque con condotte reiterate nel tempo, minacci o molesti la persona offesa in modo da cagionarle un grave e perdurante stato d’ansia o di paura ovvero in modo da ingenerare nella stessa il timore per la propria incolumità o quella di un proprio congiunto o, infine, in modo da costringere la vittima a cambiare le proprie abitudini di vita.
Da questa definizione, emerge che l’elemento centrale di questa condotta criminosa sia proprio il sentimento di prostrazione della vittima alle condotte vessatorie e persecutorie. Evidentemente queste condotte e il loro influsso sulla libertà morale e autodeterminazione della vittima tali da comportare uno degli eventi descritti dall’art. 612 bis del Codice penale possono configurarsi in qualsiasi contesto della vita, anche in quello lavorativo.
Pertanto, secondo la Suprema Corte, nulla osta alla riconduzione delle condotte di mobbing nell’alveo del cosiddetto stalking laddove “quella mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice”.
di Valentina De Donato