Il cd. danno da nascita indesiderata è il danno causato al genitore per aver leso il suo diritto a decidere se avere o meno un figlio e ricorre in due casi: imperita esecuzione di un intervento abortivo o di sterilizzazione e omesso rilevamento o omessa informazione della gestante circa la presenza di malformazioni del feto che avrebbero legittimato l’interruzione della gravidanza secondo la legge 22 maggio 1978, n. 194. In entrambi i casi la nascita avviene in qualche modo contro la volontà di uno o di entrambi i genitori. Infatti, se nel primo caso è palese che la nascita sia avvenuta contro la loro volontà (manifestata col ricorso all’intervento abortivo o di sterilizzazione), anche nell’altro questa non è più frutto di una procreazione cosciente e responsabile: la gestante, benché a differenza del caso precedente abbia voluto l’evento nascita, avrebbe potuto decidere – ricorrendone i presupposti – di non portare a termine la gravidanza ove tempestivamente informata delle malformazioni del feto.
In giurisprudenza non si dubita della risarcibilità del cd. danno da nascita indesiderata: il diritto dei genitori di non avere figli o di non avere figli affetti da gravi malattie è ricondotto nell’alveo dei diritti essenziali dell’individuo, e trova il suo fondamento negli artt. 2 e 29 della Costituzione. Tuttavia, diverse difficoltà ha posto il caso di omessa informazione o rivelazione da parte del medico di malformazioni del feto.
Il primo aspetto problematico ha riguardato l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta del medico ed il danno, infatti, è richiesto un duplice accertamento positivo: sull’esistenza delle condizioni che avrebbero legittimato il ricorso all’aborto ai sensi della l. 194/1978 e sulla circostanza che la donna, informata tempestivamente, vi avrebbe effettivamente optato.
Sulla prima circostanza è necessario rilevare che se nei primi novanta giorni l’interruzione della gravidanza è tendenzialmente sempre possibile – per cui sussiste certamente un nesso di causalità nel caso di omissioni riguardanti malformazioni rilevabili già in questo arco di tempo – , dopo i primi novanta giorni l’aborto è consentito solo quando “la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna” o “siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” (art. 6 l. 194/1978). Ciò vuol dire che, trascorsi i primi novanta giorni, per accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta del medico ed il danno non sarà sufficiente dimostrare la presenza di patologie nel feto ma sarà necessario dare prova anche del “grave pericolo” che ha comportato per la salute fisica o psichica della madre.
L’accertamento dell’altro presupposto, ossia la circostanza che la donna, correttamente informata, avrebbe effettivamente scelto di interrompere la gravidanza è di per sé più complesso, in quanto fatto psichico che non è dimostrabile in via immediata e diretta.
Specie su tale ultimo elemento in giurisprudenza si erano sviluppati due diversi orientamenti: l’orientamento maggioritario (Cass. n. 6735/2002; Cass. n. 14488/2004; Cass. n.13/2010; Cass. n. 22837/2010; Cass. n.15386/2011) riconduceva nell’alveo della regolarità causale l’informazione circa la presenza di malformazioni con l’interruzione della gravidanza, sul rilievo che normalmente una donna che concepisca un figlio malformato preferisce interrompere la gravidanza; quello più recente (Cass., n.7269/2013; Cass., n. 27528/2013 ; Cass. n.12264/2014), invece, imponeva alla gestante un onere della prova molto più rigoroso, sostenendo, inoltre, che il precedente orientamento giurisprudenziale si sarebbe erroneamente risolto nell’introduzione di una presunzione semplice, non prevista, anzi esclusa dalla l. 194/1978.
Il contrasto è stato superato dalle Sezioni Unite (sentenza n. 25767 del 2015) ad avviso delle quali, se, da un lato, è rispettoso del dettato normativo e della regola di cui all’art. 2697 c.c. gravare la donna dell’onere di allegare e provare che ella avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale, dall’altro lato, non si può trascurare la «possibilità di assolvere il relativo onere in via presuntiva». Ed infatti, gli Ermellini hanno negato l’esistenza di una presunzione legale ma riconosciuto la possibilità di assolvere a tale onere «tramite “praesumptio hominis“, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale» (orientamento confermato, da ultimo, anche da Cass. 19151/2018). Ossia, sarà possibile fare applicazione della regola di cui all’art. 2729 c.c. e ricavare dal fatto noto l’esistenza del fatto ignoto sulla scorta dell’id quod plerumque accidit e delle circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche.
Il danno risarcibile in caso di nascita indesiderata consiste, in primo luogo, nel danno di natura non patrimoniale, da valutare in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., nella cui valutazione rientrano: la perdita della possibilità di optare per l’aborto, la preoccupazione per la condizione precaria del figlio, il mutamento delle abitudini familiari causate dalla necessità di assistere un figlio affetto da grave malattia, le chance di sopravvivenza del nascituro, la possibilità di avere o meno altri figli.
Fra i soggetti aventi diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, accanto alla madre e al padre (come già affermato da Cass. 6735/2002; Cass. 14488/2004; Cass. 2354/2010; Cass. 16754/2012; e, da ultimo, Cass. 2675/2018) vengono considerati anche i fratelli e le sorelle del neonato, poiché anch’essi rientranti tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante (in Cass. 16754/2012 si aggiunge «non può non presumersi l’attitudine a subire un serio danno non patrimoniale, anche a prescindere dagli eventuali risvolti e delle inevitabili esigenze assistenziali destinate ad insorgere, secondo l’id quod plerumque accidit, alla morte dei genitori»); rispetto ad essi, il danno non patrimoniale è sicuramente rappresentato dal minor tempo che verrà dedicato loro a causa della maggiore attenzione richieste dal figlio affetto da malattia nonché dalla minor possibilità di godere di un rapporto parentale sereno e disteso.
Oggi nel caso di nascita indesiderata prevale l’orientamento favorevole a riconoscere l’esistenza non solo del danno non patrimoniale ma anche del danno di natura patrimoniale, rappresentato dalle maggiori spese di mantenimento della persona nata con malformazioni (pari al differenziale tra la spesa necessaria per il mantenimento di un figlio sano e la spesa per il mantenimento di un figlio affetto da gravi patologie, Cass. 13/2010; Cass. 14488/2004 «ogni pregiudizievole conseguenza patrimoniale dell’inadempimento del sanitario nonché del danno biologico in tutte le sue forme»; da ultimo, Cass. 2675/2018), che, a febbraio di quest’anno, la Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto spettare anche al padre oltre che alla madre (il caso esaminato dalla Corte riguardava un intervento abortivo non andato a buon fine in cui il padre aveva agito separatamente per ottenere il risarcimento del danno da lui sofferto, distinto ed ulteriore rispetto a quello subito dalla moglie, dato che la nascita indesiderata, a causa delle difficoltà economiche della famiglia, lo aveva costretto alle dimissioni al fine di incassare il tfr, Cass. 2675/2018).
Ma l’aspetto più complesso in tema di omessa informazione alla gestante o omessa rilevazione di malformazioni del feto ha riguardato il cd. diritto a non nascere se non sani e la legittimazione all’azione risarcitoria del nascituro, anch’essi aspetti considerati dalla sentenza n. 25767/2015 delle Sezioni Unite.
Ad avviso della Corte, a differenza di quanto sostenuto in alcune pronunce dalle sezioni semplici (cfr. Cass. n. 14488/2004), in teoria non vi sarebbe difficoltà nel riconoscere la legittimazione ad agire per ottenere il risarcimento del danno sofferto anche al nascituro. Il concepito, considerato come oggetto di tutela (senza impelagarsi nella ricerca dei presupposti che consentirebbero di considerarlo già dotato della soggettività giuridica), pur in assenza di un rapporto intersoggettivo con il medico, accertata l’esistenza di un rapporto di causalità tra il fatto colposo ed il danno – anche se l’evento dannoso è anteriore alla nascita – potrebbe senz’altro azionare il diritto al risarcimento del danno causato dal comportamento colposo del medico. Unica particolarità sarebbe rappresentata dal fatto che il medico è «l’autore mediato del danno, per aver privato la madre di una facoltà riconosciutale dalla legge, tramite una condotta omissiva che si ponga in rapporto diretto di causalità con la nascita indesiderata» (ipotesi considerata non dissimile dal caso di nato disabile per omessa comunicazione ai genitori della pericolosità del farmaco somministrato per favorire l’attività riproduttiva, sulla quale Cass. n. 10741/2009).
Tuttavia, l’ordinamento non conosce il cd. diritto di non nascere se non sani. Per negare l’esistenza di tale diritto, ad avviso della Corte, è sufficiente richiamare il concetto di danno-conseguenza ex art. 1223 c.c. secondo il quale un soggetto, nel momento in cui subisce un danno, “ha meno” di quanto non avesse prima dell’evento dannoso. Rispetto al nato non sano si giungerebbe a sostenere che la situazione più favorevole sia la “non vita” rispetto alla situazione successiva al verificarsi dell’evento dannoso, ossia la vita ingiusta a causa della grave malattia. Non è possibile sostenere che la “non vita” rappresenti un bene tutelato dall’ordinamento, che considera comunque preferibile la vita, ancorché ingiusta a causa della malattia, rispetto alla morte (rectius: non venuta ad esistenza): «la tesi ammissiva, in subiecta materia, incorre in una contraddizione insuperabile: dal momento che il secondo termine di paragone, nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l’illecito, è la non vita, da interruzione della gravidanza. E la non vita non può essere un bene della vita; per la contraddizion che nol consente. Tanto meno può esserlo, per il nato, retrospettivamente, l’omessa distruzione della propria vita (in fieri), che è il bene per eccellenza, al vertice della scala assiologica dell’ordinamento».
Ad abundantiam la pronuncia aggiunge che, una volta affermata l’esistenza del cd. diritto di non nascere se non sani, la pretesa risarcitoria del nato non sano potrebbe essere fatta valere non soltanto nei confronti del medico ma anche della madre, ossia si finirebbe per affermare implicitamente l’esistenza in capo alla donna di un obbligo di abortire in presenza delle condizione previste dall’art. 6 l. 194/1978, cosa assolutamente non sostenibile. Dunque, non è configurabile in capo al nascituro un danno-conseguenza perché non è possibile, rispetto a lui, comparare la situazione precedente e successiva al danno.
La Suprema Corte di Cassazione, nella sentenza in discorso, non manca di notare come alla base delle decisioni favorevoli al riconoscimento del diritto al risarcimento in capo al nascituro per il solo fatto di essere venuto ad esistenza vi sia, molto spesso, la ricerca di una giustizia sostanziale. Tuttavia, proprio su tale aspetto i giudici di piazza Cavour sottolineano che si finirebbe per assegnare «al risarcimento del danno un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misura di previdenza e assistenza sociale: equiparando quoad effectum l’errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni del feto, all’errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato».
Sul piano comparatistico, il primo caso di nascita indesiderata in cui è stato fatto valere il diritto al risarcimento del danno ad opera del nato non sano è stato deciso dalla Corte Suprema del New Jersey nel 1967 (Gleitman v. Cosgrove): anche qui, venne negato il risarcimento perché si ritenne impossibile confrontare la “non vita” con una vita malata e nello stesso senso si sono orientate le Corti europee.
Il dibattito sull’esistenza del cd. diritto di non nascere se non sani è stato riaperto dalla sentenza della Cour de Cassation assemblée plénière del 17 novembre 2000 sul cd. affaire Perruche con la quale è stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in favore di un nascituro affetto da grave malattia non diagnosticata durante la gravidanza. In Francia, dopo l’arresto della Corte francese – di rottura rispetto alla risalente giurisprudenza francese – il legislatore ha avvertito la necessità di negare perentoriamente (ed in via retroattiva) la risarcibilità del danno derivante dal solo fatto di essere venuti ad esistenza, riconoscendo un diritto al risarcimento solo quando l’atto colposo del medico ha provocato direttamente o ha aggravato o non ha permesso di adottare le misure in grado di attenuare la malattia.
In conclusione, nella decisione della nostra, così come delle altre Corti europee i giudici non hanno mancato di considerare anche il rischio cui l’affermazione di un tale diritto potrebbe condurre, infatti non si può non «soppesare il rischio di una reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psico-fisica».